Silvio Castiglioni/CRT

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REMENGÒN


 


Intervista a Silvio Castiglioni
a cura di Maria Chiara Bachetti

Che cos'è Remengón?  Mi piacerebbe che tu parlassi dei riferimenti da cui sei partito per la costruzione dello spettacolo.

Il primo pensiero va a Nuto Revelli, a quelle sue parole così impegnative per me: "lei non sa quanto mi costa".  Era una sera d'inverno a Cuneo, avevamo trascorso il pomeriggio insieme nel suo studio, lui ora mi accompagnava per un tratto verso la stazione, c'era neve ghiacciata sul marciapiede e io gli avevo appena espresso la mia ammirazione per la sua scrittura precisa, asciutta, senza fronzoli o sentimentalismi.  "Lei non sa quanto mi costa", si era fermato e mi guardava con gli occhi che mi parvero lucidi.
Poi penso a Ruth Klúgher che non ho mai conosciuto personalmente.  Nello spettacolo c'è un frammento da un suo libro che mi è stato suggerito da Nuto. Me ne aveva parlato quel pomeriggio a casa sua, poi sul treno al ritorno da Cuneo prendevo nota delle mie impressioni, erano moltissime, e su tutte la voce calma e profonda di Nuto, lui parlava e io ascoltavo con avidità e in quel momento non mi accorgevo che molte delle cose che diceva le avevo già lette nei suoi libri, e in mezzo a tutte quelle impressioni avevo perso il nome della Kiúgher, ricordavo solo "Vivere ancora", il titolo del suo libro.  A Milano ho fatto diventar matti i commessi di una libreria, ma alla fine hanno trovato il libro. Ruth Kiúgher era sopravvissuta ad Auschwitz e solo cinquant'anni dopo si era decisa a raccontare la sua esperienza, per non dimenticare. Remengón inizia con le parole con cui si apre il libro della Kiúgher che aveva dieci anni all'epoca in cui scoppiava la giierra, e ascoltava di nascosto i discorsi dei grandi.
E poi Remengón è legato a mio padre, al mio rapporto con lui.
Il punto di partenza del tuo spettacolo è "Il disperso di Marburg" di Nuto Revelli, la ricostruzione di un episodio minore della guerra, come ce ne sono stati tanti, che però minaccia di diventare dirompente anche per la vocazione partigiano dell'autore. Alle indagini e alle testimonianze raccolte intorno a questo fatto e allo sforzo di dare un nome a quel nemico lontano nel tempo, dato per disperso, si intrecciano i ricordi dell'autore che così si ritrova, dopo cinquant'anni, a rivivere quello che ha passato.

Molti anni dopo la fine della guerra Revelli viene a conoscere la storia di questo ufficiale tedesco scomparso in circostanze poco chiare - forse ucciso inutilmente - durante una delle sue passeggiate a cavallo in campagna, non lontano dal luogo dove lui, Nuto, comandava una banda di partigiani.  Sì, è il diario di una ricerca che semina molti dubbi, una ricerca perseguita anche quando sembra minacciare le basi sulle quali erano state fatte scelte importanti.  Riaffiora la guerra, la campagna di Russia, la lotta partigiana.  E' un libro che oggi consiglierei a un ragazzo che vuole iniziare a saperne qualcosa.  Nuto era perplesso quando gli ho detto che avevo amato molto Il disperso di Marburg e volevo portarlo in scena.  Mi ha chiesto: "Ma come può farne uno spettacolo teatrale?", e aveva ragione.  Non se ne può fare uno spettacolo teatrale, perché anche se si parte da un libro poi si scopre che il teatro è un mezzo per entrare in rapporto con le persone.  E le persone sono fuori di te, ma anche dentro di te, e in questo caso sono come addormentate.  Può succedere che quelle di fuori le risveglino.  Sono sempre altre persone che ti costituiscono. ]I teatro è un mezzo, il migliore che io conosca, per sondare questo mistero.  A volte si incontrano le persone giuste, come Nuto Revelli per me, che si mettono a parlare con qualcuno dentro di te.  Persone che ti mettono in viaggio, verso la tua adolescenza o addirittura l'infanzia, nel crocicchio di tutte le strade, in un corridoio con molte porte aperte.  Che poi, e questo è interessante, non si sa mai se sia un viaggio nel passato o nel futuro.
 

Proprio in questo senso, vorrei conoscere il modo con il quale hai trattato questi incontri: in altre parole, qual è stato il tuo procedimento di lavoro?

Ho cercato di avvicinarmi al libro nel modo del sogno, lavorando mi rendevo conto che quanto più mantenevo un atteggiamento 'sognante' nell'aggirarmi fra le voci restituite dalle pagine di Revelli, tanto più questo materiale prendeva forza.  Non trovo parole migliori per dire quanto è accaduto durante il lavoro.  Certo, quando si parla di sogno si parla sempre di uno spazio di libertà o di mistero, a seconda di come lo si guarda, una libertà che confina con il mistero, con la zona d'ombra.  Un conto è farsi raccontare i sogni degli altri, un conto è viverli, è un problema che mi ponevo sempre da ragazzo.  Normalmente quando qualcuno racconta un suo sogno l'esperienza sembra banale a chi ascolta, questo perché chi ascolta non era dentro il sogno.  Ma nel sogno che si vive si è dentro il sogno.  Come si fa a tradurre questa sensazione in modo che chi ascolta partecipi all'evento-sogno? E' questo il problema: qual è l'elemento di incarnazione, di traduzione, di arrivo?  Il sogno affonda le radici nell'identità personale, nell'archeologia di ciascuno.  In realtà l'atteggiamento di cui parlo era suggerito dal desiderio di conquistare una mia autonomia rispetto al punto di partenza letterario, direi che assomiglia a uno stato di abbandono, di passività, di ascolto.  Sono andato in cerca della mia necessità, della mia libertà, e non avevo la sensazione di costruire qualcosa, o di organizzare o strutturare, niente di tutto questo.  Diciamo che l'atteggiamento sognante mi ha liberato da una delle trappole in cui mi stavo cacciando.  Perché Il disperso di Marburg è costruito un po' come un giallo e io ho tentato di fare il giallo, ma non ha funzionato.  Non dico che non si possa fare, magari un altro ce l'avrebbe fatta.  Dei resto quando insiste sul giallo mi sembra che anche il libro diventi più debole, quando invece affiorano i ricordi, quelle sono le pagine più belle.  Perfino all'autore capita di cedere all'abbandono, a un certo punto mette in dubbio tutto, non sa più se questa storia dei tedesco a cavallo, dei tedesco buono che regala sigari e chiacchiera coi ragazzini, gli sia stata realmente raccontata o no.
 

Mi sembro che il temo della guerra e della resistenza siano perni tematici che ti permettono di parlare d'altro.  E che Remengón non abbia molto a che vedere con il cosiddetto "teatro di narrazione".

In realtà lo spettacolo parla della guerra perché quando avevo dieci anni era quello l'argomento di cui parlava o taceva la gente.  Ma per quel che mi riguarda la materia avrebbe potuto essere benissimo un'altra.  Mi sono domandato: perché questo libro è stato così potente da aprire porte dentro di me che non aprivo da anni?  Questo è il punto.  Probabilmente quel libro è riuscito a vincere la rigidità di alcune mie vertebre, perché alla fine tutto si risolve in un problema fisico, non solo in teatro.  Ma questo è accaduto solo dopo che ho incontrato Nuto.  Posso dire che l'incontro con lui ha impresso una forza particolare al suo racconto risvegliando un'immagine, quella dell'uomo a cavallo, che era mio padre giovane a cavallo, che ero io bambino messo sopra un cavallo.  Ecco la porta alla quale non mi ero più accostato, una porta che ha a che fare con la guerra in maniera riflessa.
La mia prima intenzione non è mai stata quella di affrontare un tema inerente alla resistenza.  E non volevo raccontare niente a nessuno, né ho mai avuto alcun intento didascalico o psicologico.  Volevo diventare semplicemente lo strumento attraverso il quale le voci che stavano dietro quella porta potessero di nuovo farsi sentire.  C'era un fatto: che lì, tastando il muro, ho trovato una pietra molle e ho affondato il braccio.  Il muro era il libro di Nuto, nei confronti dei quale c'era prima di tutto una sensazione fisica: io qui ci sto bene.  Tutti mi chiedevano: ma perché ti occupi di questo libro, e io rispondevo: perché qui ci sto bene.  Ora, il problema è di avere la forza e la costanza di interrogare il corpo oltre quell' "io qui ci sto bene" per capire dove ti sta portando questo segnale, e di continuare finché non trovi qualcosa che fa male.
Naturalmente ho provato a raccontare una storia.  Ho scritto con il mio amico e collaboratore Massimo Eusebio innumerevoli versioni della storia narrata da Nuto, ma non funzionava mai, per moltissime ragioni, ma soprattutto perché io facevo resistenza, mi opponevo al riaffiorare dei miei ricordi, cercavo di non guardare oltre quella porta, anche se il mio corpo era già dall'altra parte.  Come nella storia di Reinold Messner che torna sull'Hymalaia per scalare da solo la montagna che l'anno prima gli aveva portato via il fratello in un crepaccio.  Torna proprio per scalare quella montagna da solo.  Da solo arriva fino all'ultimo bivacco, a 500 metri dalla vetta.  Lì trascorre la notte.  C'è la bufera, lui si fa il tè, si prepara al riposo.  Il giorno dopo si attrezza psicologicamente e fisicamente a dare la scalata alla vetta, che è a un'ora e mezza di cammino, meccanicamente fa le cose che ha già fatto mille volte, raccoglie tutto, smonta la tenda, prepara lo zaino, se lo carica sulle spalle e si mette in marcia sotto la tormenta.  Dopo mezz'ora si accorge che non sta salendo verso la cima, ma che sta scendendo a valle, verso la salvezza. lo mi sento spesso in questa situazione, mi preparo a fare una cosa e in realtà vado da un'altra parte.  Ma se non succedesse così scoppierebbe la malattia, sarebbe il disastro, fortunatamente c'è un elemento sensibile che non è mai stato soffocato dei tutto, che si è risvegliato e in quel momento agisce direttamente nel tuo corpo.  Basta lasciarlo fare.  Nel mio caso ogni volta che cominciavo le prove pensando di raccontare qualcosa a qualcuno (perché è anche quello poi lo scopo) diventavo enfatico, retorico, giravo a vuoto.  Si può cominciare anche così, non c'è niente di male a cominciare così.  Guai però a rimanere inchiodati a questa illusione fino allo spettacolo.  Secondo me gli spettacoli retorici sono quelli che mantengono questo impianto da tavolino, da chiacchiera sofisticata, da persuasione malintesa. lo non devo persuadere nessuno, solo me stesso.
 

E allora, qual è stato il momento, il gesto, la parola, che ha provocato unta svolta nel tuo lavoro?  Che cos' è accaduto esattamente?

Portavo con me durante le prove la mia maschera di Arlecchino chiusa in un sacchetto bianco.  La mettevo là, in un angolo.  Non c'entrava nulla, all'inizio era un gesto scaramantico.  Non ci credevo molto, ma la mettevo là: adesso so perché lo facevo, quella era la mia pancia, era il mattone molle che c'era nel muro.  A un certo punto mi stancavo di raccontare dei tedesco disperso nelle campagne e mi mettevo a pensare ad alta voce, parlando alla maschera chiusa nel sacchetto, parlavo di tutto quello che mi passava per la testa, oppure mi aggiravo in silenzio, come un animale in gabbia.  Insomma, entravo in uno stato diverso e allora succedeva qualcosa.  Appariva sempre lo stesso luogo, un luogo antico che oggi non esiste più, la vecchia cucina di casa mia.  Là allora non c'era la televisione e durante l'inverno mio nonno metteva ad abbrustolire le mele sulla stufa, poi le prendeva a una a una, le sbucciava a beneficio di tutti, la stanza era piena dei profumo delle mele abbrustolite, e la mia più grande aspirazione era di poterle sbucciare come lui, perché io ero troppo piccolo e non mi lasciavano maneggiare il coltello, potevo solo mangiarle ma non "pelarle".  La cucina era il luogo dei racconti, dei fantasmi, era lì che avevo sentito per la prima volta parlare dei tedeschi, ma solo quando non era presente mio padre, che i tedeschi non poteva neanche sentirli nominare.  In questa stanza c'erano anche i russi.  Per me i russi erano i barbari per eccellenza, e la peggiore offesa che mio nonno mi potesse fare quando finalmente avevo ricevuto il permesso di "pelare" le mele, era dirmi che "pelavo i pomi come i russi".  Quando diceva così era la fine, mi sarei cacciato sotto il tavolo dalla vergogna perché si sa che i russi non sanno sbucciare le mele, buttano via quasi tutto.  Mio nonno i russi li aveva conosciuti bene in un campo di prigionia austriaco durante la prima guerra mondiale, erano sporchi, inetti e delinquenti, dei veri e propri barboni.  Per lui la Russia e la Germania erano due entità mitiche: la Germania era la civiltà, eravamo stati sotto l'impero austro-ungarico e il nonno aveva un grande ammirazione per l'amministrazione austriaca.  La Russia invece era la barbarie.  Poi è arrivata una nuova guerra e sono cominciati i problemi.  Perché la mitologia personale dei nonno era stata messa in discussione; lui non aveva capito bene che cosa era successo dopo, nell'altra guerra, e il suo racconto si inceppava.  Piano piano lo spettacolo perde i passi originali e fa posto alle nuove immagini che affiorano.
 

Alla luce di tutte queste suggestioni, autobiografiche e non, che cosa è rimasto dei libro di Revelli?

C'é la storia del tedesco a cavallo e alcune lettere dei dispersi in Russia tratte da un altro suo libro L'ultimo fronte.  In realtà della storia dell'ufficiale tedesco a cavallo sono rimaste soltanto le ossa, ma resta il fatto che la chiave della mia stanza l'ho trovata in questo libro.  Grazie ad esso ho attraversato la soglia.  Penso che la qualità più preziosa di Nuto Revelli consista nella sua capacità di ascoltare.  E' molto fedele alle voci dei suoi informatori.  Ama le voci, e le raccoglie con rispetto e devozione.  Quando lui fa parlare nella loro lingua i suoi contadini, i testimoni dei fatti che all'epoca erano ragazzi, anche se poi l'autore opera una ri-trascrizione in italiano, dal punto di vista sintattico - cioè dal punto di vista dei pensiero profondo - queste voci mi risuonavano dentro nel mio dialetto, la lingua della mia infanzia, facendo riaffiorare altre voci, altri racconti, altre immagini, altri volti.  E la cosa si ripeteva regolarmente. lo cominciavo a raccontare dell'ufficiale tedesco disperso nelle campagne cuneesi con la determinazione di Messner di arrivare sulla cima.  Adesso mi attengo alla storia e basta, mi dicevo.  Poi mi perdevo; o mi censuravo, mi sentivo uno che pontificava.  Che ne sapevo io della guerra?  Allora facevo silenzio.  Avevo individuato poche azioni, mi attenevo a quelle, in silenzio, sbirciavo verso la maschera di Arlecchino e mi si apriva l'altra dimensione.
Ho capito che non era molto interessante che io portassi in scena quella storia, che dovevo invece crearmi un percorso a ostacoli che mi mettesse nella condizione, tanto per cominciare, di fare quello per cui da ragazzo ero famoso: scappare senza che nessuno riuscisse a prendermi, sperando di riuscire a cacciare la testa dietro quella porta.  Bene: allora la maschera è uscita dal suo sacco di tela bianca.  Arlecchino ragazzo scappa perché ha udito ciò che non si deve ascoltare né ripetere.  Per quanto riguarda Don Chisciotte, nello spettacolo si af faccia anche lui, io lo vedo un po' come un Arlecchino che ha letto dei libri.  Nel mio zoo personale stranamente li ho sempre associati.
Sto cercando di spiegare che per me Remengón non è un racconto, ma è un viaggio verso il mio corpo, ad ascoltare l'impulso primario che mi porta a destra o a sinistra, verso la cima o verso valle e che mi salva invece di perdermi, e mi aiuta a capire chi sono.
 

Sei riuscito a far affiorare i tuoi ricordi.  Un viaggio nella memoria.

Memoria è una parola difficile.  Mi fa venire in mente una frase di Variam Saiamov, il grande scrittore russo: di fronte alla memoria, come di fronte alla morte, tutti gli uomini sono uguali, e uno ha il diritto di ricordare l'abito della serva e dimenticare i gioielli della padrona.  D'altra parte la memoria di una persona è la sua identità.  La memoria è essere presente, in scena e nella vita.  La memoria è la maschera.
 

E tu in scena infatti usi la Maschera.

Avevo bisogno di compagnia.  Remengón è il primo spettacolo che ho realizzato praticamente da solo.  Molti mi hanno aiutato, è vero, mi sono circondato di persone che mi hanno dato una mano, anche a loro insaputa, ma in scena sono solo.  E questa è una prova nuova per me.  E poi la maschera è forza pura.  E per questo l'ho accettata in scena correndo tutti i rischi immaginabili.  Adesso, a differenza di prima, durante lo spettacolo la indosso.  Però l'avvicinamento alla maschera è stato lungo, c'è voluto dei tempo prima che mi convincessi a farlo.  La maschera protegge, è vero, credo di sapere qualcosa della maschera, di come funziona, e anche questo è un problema perché si può cedere alla tentazione di usarla per nascondersi, una reazione infantile, perché quello è il posto peggiore dove andare a nascondersi.  Ora so che non avrebbe potuto che essere così: ci voleva prudenza e astuzia. perché la maschera è uno strumento dei teatro ma prima, forse, era qualcos'altro.
 

E come è nato il tuo Arlecchino?

Le più divertenti (e credo interessanti) espressioni cui mi abbandonavo con vera felicità nella mia giovinezza teatrale sfociavano sempre in una sorta di matto un po' tarantolato più veloce degli altri che non poteva tenere un segreto, non poteva star zitto e non dire la verità su quello che vedeva.  Impossibilità queste che si pagano care.  Insomma era sempre pronto alla fuga, il volto nascosto da uno straccio nero.  Donato Sartori, il grande mascheraio, mi vide in azione e mi disse: "Vai a sceglierti una delle mie maschere" e io scelsi fra tutte quelle esposte, senza saperlo, la stessa che usava Soleri per Arlecchino.  Ma già prima la gente aveva preso l'abitudine di chiamarmi Arlecchino, anche se non avevo un costume riconoscibile: solo una giacca rattoppata, dei campanacci e un topo in tasca, e tornavo a essere un ragazzo.
L'adolescenza è il momento in cui il mondo si imprime su di noi con maggiore forza perché ci costringe ad assumere un ruolo.  Era il luogo dove io volevo tornare, per potermi ridare qualche possibilità.  Per questo dovevo portarmi anche la maschera accanto alla storia dei tedesco: perché anch'io, come tutti credo, ho combattuto la mia guerra quando avevo 1 6 anni.  La stessa età che aveva Revelli quando è entrato in accademia militare.  Quando è partito per la Russia aveva dei presentimenti funerei: era poco più che un ragazzo ma era pur sempre un ufficiale effettivo dell'esercito italiano.  E' tornato dalla Russia completamente trasformato, già grande.
E poi c'è la guerra quotidiana nella quale la maschera può giocare un ruolo importante.  Quotidianamente noi cerchiamo dei pretesti, per rallegrarci, per entrare in una dimensione di entusiasmo.  Altrimenti si soffoca.  Si può partire da dove si vuole, non so da una passeggiata notturna, da una sbronza, da una corsa a perdifiato sulla spiaggia, tutte le possibilità sono aperte.  Ecco, per me la maschera è come una buona bottiglia di vino, sollecita un altro stato d'essere, che poi naturalmente deve diventare in qualche modo contagioso, arrivare a tutti, e questo è un altro aspetto dei problema, non si può trasmettere entusiasmo se non si toccano certe corde.  Forse io ho avuto bisogno di prenderla così alla lontana, di partire dal libro di Nuto Revelli.  Forse l'insieme dello spettacolo, la storia dell'ufficiale tedesco, le lettere degli sventurati che sono andati a morire in Russia, il delirio di Don Chisciotte e l'Arlecchino che sta sotto tutto questo, vagabondi per antonomasia, non sono altro che tappe di avvicinamento all'essenza, all'unità, alla situazione integrata, in cui corpo e sogno non si separano più ma vivono in un unica dimensione integrando tutte le altre.  Un "corpo sognante".
La mia idea è che uno spettatore che comprende poco l'italiano mi aiuti a definire meglio quest'idea dell'aggirarsi in modo sognante, credo che potrei ricavarne indicazioni preziose.  Un giorno ero con Francois Kahn e un suo amico brasiliano, siamo scesi nella stanza dove provavo, mi sono circondato dei pochi oggetti di scena e con la maschera in mano ho cominciato a raccontare la favola dell'Angioìn, la prima poesia che il mio Arlecchino ha composto in vita sua più di vent'anni fa.  I miei amici comprendono bene l'italiano, tuttavia non capivano niente perché io recitavo in veneto stretto, e non facevo nessuno sforzo per farmi capire da loro.  Eppure erano incantati, sorpresi.  Francois diceva "è apparso qualcosa".  In qualsiasi momento può apparire qualcosa.
 

All'inizio hai accennato a tuo padre che è legato a Remengón.  Vuoi spiegare in che modo?

Visitando in Israele il museo dell'Olocausto avvertivo lo sgomento dei padri di fronte all'impossibilità di trasmettere ai figli il contenuto della loro esperienza.  Si dovrebbe sapere che le esperienze non si trasmettono, io impariamo a nostre spese.  Il problema è che quando l'esperienza è proprio quella, non ci si rassegna facilmente al fatto che non si possa trasmettere.  Levi analizza questo sentimento con grande lucidità.  E c'è anche un altro aspetto dei problema che complica le cose.  Anche nel libro di Revelli c'è un'affermazione che è conosciuta, anzi conosciutissima, da tutti gli aguzzini di questa terra: che solo gli eventi che provocano dolore si incidono profondamente nella memoria.  E lo scopo dell'aguzzino è rendere questo meccanismo molto efficiente, perché questo poi provoca tutta una serie di conseguenze, compreso il fatto che la vittima si lega psicologicamente al suo carnefice.  Per lo stesso motivo molti di coloro che hanno patito preferiscono tacere, come mio padre.  E chi potrebbe dargli torto?
Uno dei motori di questo mio lavoro è stato proprio il silenzio di mio padre, che non ha mai accettato di parlare di guerra o di tedeschi.  Quando provavo a interrogarlo trovavo-un muro e io allora mi irritavo molto.  Oggi penso al suo silenzio con gratitudine, come a un'eredità preziosa, per lo meno ho continuato a farmi qualche domanda.  Alla fine lui però la sua pace con i tedeschi l'ha fatta: ha comprato un trattore tedesco.
 

Puoi svelarci il significato esatto dei termine Remengón?

Se dovessi tradurre errante nella lingua delle mie parti scegliere proprio remengón.  C'è un altro uomo a cavallo nella mia infanzia, un veterinario con cappello bianco e toscano in bocca che girava per le campagne nell'immediato dopoguerra: "I tedeschi hanno ucciso la guerra", ripeteva.  Significa che dopo i tedeschi non c'è più guerra possibile, la guerra ha cessato di essere un immaginario praticabile, è stata sterminata, è stata ridotta in condizione anti-eroiche.  Dopo la guerra di sterminio è stato tolto all'eroismo la possibilità della guerra.  Povero Don Chisciotte!  La cavalleria è stata uccisa un'altra volta.
 

Cosa puoi aggiungere sulla figura dei Remengòn come personaggio?

Ci sono molte figure intorno al Remengón, innanzitutto Arlecchino e Don Chisciotte, poi l'Angiolin, un tipo che incontravo da ragazzo.  Andava in giro per le case in cerca di cibo, vestito alla meno peggio, con un lungo cappotto.  Era senza casa, senza lavoro, senza un posto dove stare.  Si diceva che fosse stato in guerra, che fosse scampato alla Russia.  Era il classico matto dei paese, girava per le campagne, cantava, rideva, aveva perso tutti i denti, faceva delle cose strane.  Il ricordo è piuttosto confuso, a volte credo di essermelo inventato.
C'è anche Giovanni, che vive oggi a Santarcangelo.  Cammina giornate intere strascicando i piedi per le strade dei paese con le mani in tasca, il bacino spinto in fuori, le spalle ricurve, fuma in continuazione e ogni tanto si mette a urlare contro i tedeschi, perché ha paura che i tedeschi gli portino via i soldi.  Giovanni e l'Angiolin hanno in comune una cosa: tutti e due vivono vicino alle loro famiglie.  Prima avevano una vita normale, ma poi sono partiti, nel senso che hanno abbandonato tutto e si sono messi a fare questo loro strano viaggio di solitudine.

 sabato 1 aprile ore 21 - Biglietto unico L. 10.000
(non c'è prevendita)

PER INFORMAZIONI: telefax 050 542364, santandrea@comune.pisa.it




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